ICEI - Istituto Culturale Ebraico Italiano - Memoriale della Shoà - Miriam Jaskierowicz Arman museum
Istituto Culturale Ebraico Italiano - Promozione e Sostegno del Memoriale Shoà - Miriam Jaskierowicz Arman museum
Raccogliamo fondi per la costruzione del nuovo memoriale della Shoà/October7 - Miriam Jaskierowicz Arman museum a Villa Raspa di Spoltore Pescara. Attraverso donazioni, attività ed eventi.
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“CHE SI ABBIA IL MASSIMO DELLA DOCUMENTAZIONE POSSIBILE”: IL MONITO DI EISENHOWER CHE DOVREBBE GUIDARCI ANCORA OGGI Quando il generale Dwight D. Eisenhower – futuro Presidente degli Stati Uniti – mise piede nei campi di concentramento nazisti appena liberati, non ebbe esitazioni, né tentennamenti, né dubbi di alcun tipo. Davanti a fosse comuni spalancate come ferite, resti umani ammassati in modo disumano, corpi scheletrici che raccontavano l’orrore senza bisogno di parole, Eisenhower comprese immediatamente che il mondo avrebbe potuto dimenticare. O peggio, che qualcuno avrebbe potuto negare. Per questo diede un ordine che, ancora oggi, rappresenta una delle più importanti operazioni di documentazione della storia moderna: fotografare tutto. Fotografare le tombe improvvisate, i mucchi di abiti e ossa, i dormitori gelidi dove l’umanità era stata annientata. Fotografare i forni crematori, il filo spinato, le torri di guardia, ogni centimetro di quel meccanismo perfetto costruito per distruggere vite. Fotografare i superstiti, esseri umani sospesi tra la vita e la morte, così consumati dal dolore da raccontarlo con un solo sguardo. Il generale sapeva bene che quelle immagini sarebbero state la prova, l’unica arma contro la menzogna del futuro. Il gesto che cambiò il modo di raccontare l’Olocausto: Eisenhower non si fermò alla documentazione militare. Ordinò anche che tutti i cittadini tedeschi delle città vicine venissero condotti dentro i campi per vedere l’orrore con i propri occhi. Niente scuse, niente “non sapevamo”, niente alibi. E pretese che fossero proprio loro – quei civili che avevano scelto di non vedere o di non chiedere – a seppellire i morti, a toccare con mano ciò che era stato compiuto nel loro nome, sotto il loro silenzio. Un atto crudele? No. Un atto necessario. Il monito: la frase che dovremmo tatuarci nella memoria: La motivazione di Eisenhower è diventata una delle frasi più lucide, importanti e profetiche della storia contemporanea: “Che si abbia il massimo della documentazione possibile – che siano registrazioni filmate, fotografie, testimonianze – perché arriverà un giorno in cui qualche idiota si alzerà e dirà che tutto questo non è mai successo.” In queste parole c’è tutto. C’è la consapevolezza che gli esseri umani dimenticano. Che gli esseri umani rimuovono. Che gli esseri umani negano ciò che li spaventa. Che gli esseri umani riscrivono, distorcono, reinterpretano per convenienza. Eisenhower aveva già visto arrivare l’ombra del negazionismo quando ancora i campi fumavano. Aveva compreso che la verità, senza prove, sarebbe stata fragile. Per questo volle che la storia fosse resa indistruttibile. Perché la sua frase oggi è più attuale che mai: Viviamo in un’epoca in cui la manipolazione dell’informazione è diventata facile, rapida, virale. In cui una foto può essere giudicata “falsa”, un fatto “inventato”, una testimonianza “esagerata”. In cui il dubbio tossico si diffonde più velocemente della verità. Eppure, le immagini raccolte allora – tremende, impossibili da guardare senza provare dolore – sono ancora qui a ricordarci perché non possiamo abbassare la guardia. Perché il passato non è passato davvero se non lo custodiamo con onestà. Perché ogni negazione dell’Olocausto non è solo ignoranza: è un attacco alla memoria delle vittime, alla dignità della storia, alla verità stessa. Un ordine, un monito, un dovere: Il gesto di Eisenhower non fu solo un’azione militare. Fu un atto moralmente gigantesco. Fu il modo per dire: “Noi questo non lo permetteremo. Non permetteremo all’umanità di dimenticare. Non permetteremo alla menzogna di vincere.” Ed è proprio qui la chiave del suo messaggio: la verità deve essere protetta. La memoria deve essere documentata. La storia deve essere testimoniata. Sempre. Perché avrà sempre ragione Eisenhower: arriverà qualcuno, prima o poi, a dire che non è mai successo. E noi dovremo essere pronti a rispondere. Con i fatti, con le prove, con la memoria.
Bergen-Belsen, 1947 Nel dicembre del 1947, le rovine di Bergen-Belsen giacevano silenziose sotto una spessa coltre di neve, le baracche e le recinzioni di filo spinato trasformate in sagome spettrali contro il cielo invernale. Un tempo paesaggio di fame, malattie e morte, il campo era diventato un centro di accoglienza per sfollati, un mondo intermedio per migliaia di sopravvissuti all'Olocausto che non avevano altro posto dove andare. In quella mattina gelida, si prepararono a lasciare il luogo che li aveva imprigionati e protetti, portando con sé solo ciò che le loro braccia potevano reggere e ciò che i loro cuori potevano sopportare. Uomini e donne si muovevano lentamente lungo i sentieri ghiacciati, stringendo con sé logore valigie di cuoio, casse di legno e fagotti legati con la stoffa – beni accumulati in anni di peregrinazioni. I loro cappotti, rattoppati e pesanti, frusciavano al vento, mentre il loro respiro si mescolava all'aria gelida come piccole nuvole che si alzavano dalla terra. I bambini camminavano accanto a loro, tenendo in mano bambole improvvisate cucite con ritagli di vecchie uniformi, con gli occhi a bottone fissi sul cielo bianco. Questi giocattoli silenziosi, fragili e fatti a mano, ricordavano che anche nei momenti più bui, qualcuno aveva comunque cercato di dare loro conforto e infanzia. Lungo le recinzioni di filo spinato, i camion rallentavano pazientemente, i motori ronzavano come a incitare i sopravvissuti ad andare avanti. Le persone che salivano a bordo portavano con sé non solo i loro averi, ma anche le loro storie: ricordi di liberazione, dei malati di cui si erano presi cura, degli amici che avevano seppellito in semplici tombe di legno lì vicino. Per molti, questa partenza era come lasciarsi alle spalle un capitolo scritto nel dolore e nella resilienza. Davanti a loro si apriva l'incertezza – lingue straniere, città sconosciute, navi lontane – ma anche il primo debole barlume di possibilità. Alcuni erano diretti in America, altri in Canada, nel Regno Unito o nel neonato stato di Israele. Ogni destinazione offriva la stessa fragile promessa: una vita ricostruita dalle ceneri. Nel silenzio ovattato della nevicata, l'unico suono costante era lo scricchiolio degli stivali che premevano sulla terra bianca. Ogni impronta lasciata era una piccola dichiarazione: sono sopravvissuto. Sono ancora qui. Mentre il convoglio iniziava a muoversi attraverso i cancelli, l'accampamento che un tempo era simbolo di disperazione divenne, finalmente, un passaggio verso il rinnovamento. Bergen-Belsen, nel suo ultimo inverno da rifugio, assistette a qualcosa che non aveva mai conosciuto prima: non fini, ma inizi.
Questa è una foto di Istvan Reiner, scattata poco prima della sua morte ad Auschwitz. All'epoca aveva solo quattro anni. La foto mostra l'innocenza del ragazzino mentre posa per quello che pensava fosse un momento di gioia, per poi morire insieme a tante altre persone innocenti nel campo di concentramento. La foto è stata donata allo United States Holocaust Memorial Museum dal fratellastro di Istvan, Janos Kovacs.
Storia di una sopravvissuta — Bergen-Belsen, 1945 Quando i soldati britannici entrarono a Bergen-Belsen nell'aprile del 1945, trovarono un mondo che somigliava a malapena alla vita. Tra i sopravvissuti c'era una giovane donna fragile di nome Miriam, avvolta in una coperta lacera che aveva barattato con una crosta di pane settimane prima. Rimase completamente immobile mentre i camion carichi di cibo e medicine arrivavano, come se temesse che il momento potesse svanire se si fosse mossa. Un medico le si avvicinò con una tazza di latta piena di brodo. Quando la sollevò, le sue mani tremarono così violentemente che metà del contenuto si rovesciò a terra. Sussurrò: "Pensavo che non sarebbe mai venuto nessuno". Il medico le posò delicatamente la mano sulla sua, tenendo ferma la tazza e guidandola verso le labbra. I suoi occhi, infossati ma vivi, lo guardavano come se stessero memorizzando il volto di qualcuno che l'aveva tirata fuori da un incubo. Più tardi, mentre sedeva vicino a un fuoco improvvisato, un altro sopravvissuto le drappeggiò un cappotto sulle spalle. Per la prima volta da anni, Miriam sentì un calore che non derivasse dalla febbre o dalla paura. La liberazione non era solo l'arrivo dei soldati: era il ritorno di piccoli gesti umani che pensava il mondo avesse dimenticato.

